LETTERA DA ITACA
a
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 6 dicembre 2012
UNA SETTIMANA DI BONTA'
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Carissimi,
so bene come sia lontano da tutti noi la concezione della innocenza della parola.
Ma in questi tempi una ve ne è che circola con sempre maggiore frequenza. Il fatto non è certamente imputabile a determinate persone né a circoscritti gruppi sociali o politici, piuttosto la si respira, oramai con tutta la naturalezza dei polmoni, nell'assestato habitat dei discorsi quotidiani, nei quali, tacitamente, alberga da sovrana. E proprio ora, quando più viene meno la sua rispondenza reale anche sul piano della retorica immediatista e praticona - perché su quello della teoria storica è già stata smantellata; mentre sul piano della pratica a smantellarla ci pensano gli stessi rapporti materiali che essa dovrebbe definire.
Sto parlando, ovviamente, del termine «democrazia».
Tralascio tuffi i contributi storici, classici oramai, sulla critica politica a questo termine, non esercizi accademici o pedanterie, bensì necessità di lotta teorica, prima che pratica, per sbarazzare il terreno dalle illusioni "progressiste" sul capitalismo. Sappiamo bene come alcune parole vengono poste quali ponti all'accesso per l'intero battaglione dei significati che presuppongono e implicano, che inevitabilmente si trascinano-dietro-basta-dargli-tempo.  E specialmente quando sono parole-programma, geroglifici ideologici.
L'uso di questi termini non è da considerare benevolmente come astuzie per opportuni piccoli movimenti di truppe controllabili a piacimento e inoffensive, perché in realtà si tratta delle avanguardie sottili di un esercito di significati strettamente solidali tra i quali non vi è soluzione di continuità, trattandosi piuttosto di un unico termine nelle sue diverse speci.
La scuola politica del capitale ha tenuto lunghissimi corsi e tutto questo non ignora; quella del proletariato ha avuto corsi irregolari e dolorosi da non potersi concedere delle debolezze e avere dei riguardi anche soltanto verso una terminologia approssimativa.
Rivendicare ad una non ben precisata "sinistra" il termine "democrazia" (e ovviamente la sua attuazione pratica) per negarla allo Stato del Capitale (secondo una  prassi del tutto illusoriamente furbesca che fa le paia con quella dei primi decenni del secolo con la quale si argomentava che il cristianesimo si sarebbe realizzato con il comunismo ecc., riducendo in tal modo la lotta teorica e pratica del materialismo scientifico al vuoto anticlericalismo; e con la scusa di ampliare l'area di influenza del socialismo con tali mezzucci si indeboliva oggettivamente il partito che poi, per queste tattiche da imbonitore, dovette spendere notevoli energie per liberarsi, ad es., dei massoni iscritti al partito)….
Rivendicare, dicevo, il termine «democrazia» è un espediente retorico non innocuo, perché questo termine tende, con tutte le sue forze, a sostituirsi al termine "comunismo".
L'accostamento, e peggio la loro promiscuità, opera in modo che la vaghezza dei primo temine svuoti il secondo dalla sua solidità scientifica.
Contrariamente all'uso comune, il termine «democrazia» è riducibile ad una raccolta di semplici meccanismi di consultazione; indica generalmente solo delle procedure (democratica è anche l'elezione del Papa da parte del Concilio dei Vescovi, democratica era anche la nomina dell'Imperatore da parte dei grandi Elettori del periodo feudale, ecc.) mentre con il termine «comunismo» si intende designare un modo di produzione, una fase storicamente successiva al modo capitalistico, nella quale si possono regolare i rapporti sociali anche in una forma democratica fin quando non si trova uno strumento più rispondente) però dopo e solo dopo avere determinato le condizioni materiali nelle quali tale forma può prendere ad agire.
E non è cosa indifferente se procedure democratiche agiscono in una società divisa in classi piuttosto che in una senza classi.
Prescindere da questa condizione per parlare di democrazia ad ogni costo e in ogni occasione è come pretendere di verificare la legge di gravità per ogni corpo a prescindere dalla presenza dell'aria.
Questo non può risolversi altrimenti che in una sottomissione oggettiva del programma storico e della classe che tale programma è chiamato ad attuare; sottometterlo ad una vuota parola; condizionare l'azione organizzativa e le lotte immediate ad un feticcio verbale; diffondere il timore di agire contro un precetto borghese che si fonda sull'idiozia «la maggioranza ha ragione» (per non dire "la maggioranza ha più forza"; con la qual cosa si ammetterebbe la pericolosa verità politica «la forza è ragione», e non viceversa).
Ma tale idiozia non trova la borghesia tanto ingenua da applicare questo stesso meccanismo, preteso superiore e infallibile, per indire consultazioni  popolari sulla nomina del capo della Polizia, del Ministro degli Interni, dei Presidente del Consiglio, o per decretare sui contratti di lavoro; e nemmeno così sciocca da indire referendum per scegliere quale adottare tra le varie teorie sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce, e giungere finalmente in tal modo a fare democraticissima e popolarissima scienza.
Questa applicazione estensiva giungerebbe a dimostrare niente altro che in questa società la ragione è dei fessi (a conferma del vecchio adagio).
Se poi, con procedimento del tutto logico, si passano a sostituire i termini equivalenti, si potrebbe ottenere: la maggioranza è dei fessi - cosa da lungo tempo prevista e statisticamente verificata.
Un altro passaggio ancora e abbiamo: l'opinione pubblica è fessa.
In fondo tutto questo è stato detto con parole più precise da una dottrina riposta prima in soffitta, oggi gettata alle ortiche: "le opinioni dominanti sono quelle della classe dominante".
Nei campi di ortiche avendo riposto la mia dimora faccio un taglio e passo oltre - seppure a braccio e senza timore di ripetermi.
Si dice, a volte: occorre più democrazia. Si dovrebbe precisare meglio: quanto di più?.
Mi viene di pensare ai Proci che attendono pazientemente e fiduciosi che Penelope finisca la sua barbosa tela per convolare a giuste nozze e farsi un'omerica scopata (epica, storica…questa sì palingenetica!).
Mi viene di pensare ad un delicato fidanzatino che sogna di svegliarsi una tenera mattina di primavera nel letto della sua bella, soddisfatti entrambi di non essersi accorti del loro cambiamento fisiologico; e con l'innocenza di sempre continuare poi a cogliere con pargolette mani i verdi melograni dai bei vermigli fior (il verde e il rosso.. mentre il biancore lo mette l'innocenza della mano).
Se con «più democrazia» si vuole intendere che la democrazia si estende e sviluppa per propria natura, allora basta restarsene fiduciosi.
Se al contrario «più democrazia» è una parola d'ordine per lottare per il suo sviluppo, allora bisogna ammettere che vi sono delle forze contrarie che tale svilupparsi armonioso e inarrestabile impediscono.
«Chi disfa nottetempo la tela di Penelope?»
Se lo fa Penelope stessa con qualche compiacente ancella (come dire che si tirano in ballo le teorie sulla potenza della volontà degli individui, dell'energumeno della storia) allora tocca ai Proci smascherarla e fermarli; ma poi ingenui, se accetteranno con lei, di nuovo, qualche patto similare!
E se i Proci abbracciano tale ipotesi ritenendo del tutto idealisticamente che l'individuo in quanto tale, o ristretti gruppi, è capace di mettersi di traverso e di fare attendere la storia, ritardare lo svilupparsi delle sue forme politiche superiori, non possono poi condannare chi - prendendoli in parola - decidesse di togliersi dai piedi senza altri indugi sia Penelope che le ancelle, e così dare finalmente libero corso al presunto svilupparsi armonioso della Storia e della Democrazia.
Allora risulterebbero essere questi Proci idealisti con la loro teoria del protagonismo storico, i veri istigatori dell'assassinio delle Penelopi.
Gli esecutori materiali possono essere colpevoli solo difronte al materialismo storico per aver preso per buona una visione storica mediocre e fallace, sebbene nell'intenzione generosa quanto disperata. 
Se poi non è Penelope ma una forza irremovibile ad agire tramite lei, a costringerla a disfare la trama e l'ordito della democratica tessitura, allora è vano opporvisi, perché tutto rientrerebbe nel corso ineluttabile delle cose.
Ma in questo caso parlare di «più democrazia» non sarebbe altro che una menzogna consapevole di esserlo, diffusa nel Palazzo per tenere buoni all'infinito i celibi. (Chissà se qualcuno ha già pensato che, la Marieé di Duchamp potrebbe avere ascendenti omerici?).
Se invece non vi sono in ballo forze sovrannaturali e neppure l'Individuo, ma viceversa rapporti materiali tali che la tela di Penelope così come viene fatta così si scioglie per una propria intima e determinata natura (quelle che per comodità si dicono "le contraddizioni").…se cioè la democrazia non può procedere ferme restando le determinazioni storiche e le condizioni materiali dalle quali è nata e sulle quali poggia, allora urgerebbe almeno porre la domanda: Che senso ha avuto stipulare un patto che prevedeva un esito inconcludibile?
E chi sono poi gli stolti che possono pretendere da sé stessi e dagli altri che bisogna tener fede ad un patto così assurdo?
Penelope ha forse svolto decentrata opera di convincimento lusingando isolatamente i pretendenti con una promessa di amplesso maritale o adulterino, solare o lunare.
Nel frattempo le ancelle  più esperte mantengono alta l'eccitazione e procedono a rapidi svuotamenti periodici per calmare gli animi. Estremo espediente di Penelope o sottile istituto da lupanare?  Allora i Proci, visto l'andazzo, con un formidabile colpo di reni assembleare impongono la sublime formula, nata dai loro congiunti e prestigiosi sforzi: Controllo Popolare!
Così con questa frase, oltre a perdere la faccia si condannano con le loro medesime mani (o teste?).
Infatti a ben considerare questa loro rivendicazione altro non implica che:  1) il Popolo non ha il potere, ma soprattutto: 2) neppure ritiene sé stesso idoneo ad averlo.
Ci si limita a chiedere, non il potere stesso ma il suo controllo.
Ma senza il Potere come porre definitivo riparo anche solo agli eccessi e abusi di chi tale potere detiene? 
Si possono al più additare coloro che mangiano senza ritegno alcuno all'interminabile festino reale.
Ma la magione essendo di Penelope, di Telemaco, loro è anche il decidere se scacciare o nutrire l'ingordo e l'irrispettoso (cfr. la derisione di Marx alla teoria borghese dell'astinenza, Quaderno II dei Lineamenti).
L'importante, per Penelope ben inteso, non è di evitare l'amplesso coi pretendenti, quanto di trattenerli in casa affinché Ulisse vindice ne possa fare strage sicura. I Proci, deboli e smidollati da annosa attività masturbatoria, solleticati continuamente dalle possenti chiappe regali della figlia di Dedalo, neppure l'arco riusciranno a tendere per dimostrare la loro potenza, il loro diritto al Potere.
Alla fine viene Ulisse (Istituto dello Stato Itacese andato in trasferta per ritemprarsi sotto tutti i climi del pianeta e allacciare alleanze con forze divine) e, ristabilita la continuità con i suoi delegati - dal figlio al guardiano dì porci -, giù una strage mondiale.
Tutto si è svolto secondo regole di gioco democraticamente promulgate e democraticamente accettate.
Al gioco della tela -magari smascherato dall'accorto "controllo popolare"-  segue il gioco dell'arco (strumento del quale non a caso Ulisse è proprietario da gran tempo ed unico esperto nell'uso non meno che unico conoscitore del segreto del talamo coniugale).
In quest'ultimo gioco Penelope e Ulisse sanno bene come i tentativi di piegare democraticamente l'arco (non di spezzarlo gordianamente!) avrebbero fiaccato definitivamente le braccia e lo spirito dei Proci contendenti.
Minerva, ministro e consigliere militare dei Coniugi, ben li indirizza, perché tutto è proteso e preparato per l'esito sanguinoso.
A detta di tutti gli onesti le regole del gioco (o giogo?) vanno rispettate.
Ma sapete bene come nei bilanci complessivi il banco vince sempre, anche se qualcuno ha potuto riuscire ad arraffare qualche cosa: anzi proprio per questo. In ultimo la famiglia felicemente riunita si può persino vantare di aver stipulato duratura pace con le famiglie dei Proci. Fatto del tutto marginale se tale stipula avviene dopo e solo dopo aver privato le famiglie dei Proci dei rappresentanti più vigorosi, o almeno promettenti! Giusta precauzione. In ogni caso la pace è imposta e mantenuta grazie alla violenza. E Ulisse può concedersi una tregua di riposo tra una strage e la prossima.

Scusate se mi sono lasciato prendere anch'io da un "gioco" di figure ma questo mi ha dato l'opportunità di fare un poco di storia, e forse di tattica del Potere.
Il bello delle grandi opere epiche è che sembrano offrirti già sviluppato per grandi e grandissime linee il movimento degli eventi, che finalmente ti sembra di averli in pugno, di poterli maneggiare come fossero oggetti del tutto sensibili.
Fuori da ogni determinatezza storica e sociale, la «democrazia», un mero meccanismo, uno strumento o attrezzo, diviene un Valore, superclassista, metastorico.
Ma un valore che si attesta in posizione trascendente può essere suscettibile di miglioramento? Può esserlo solo qualora lo si consideri non un valore bensì un prodotto storico. In questo caso il meccanismo democratico non avrebbe nulla di intoccabile.
E se non è intoccabile nelle sue parti può non essere intoccabile anche nel tutto.
Allo stesso modo di come si è presentato può tranquillamente (si fa per dire) andarsene per cedere il posto ad un altro meccanismo più rispondente alle mutate condizioni sociali.
Chiamare il proletariato ad una difesa di principio della «democrazia» equivale, in breve, chiamarlo in difesa dello stato attuale delle cose.
L'espressione comune «più democrazia» si risolve dunque nell'ipostatizzazione di questa democrazia; ma più che altro nell'ipostatizzazione della sua sostanza: il modo di produzione capitalistico.
Supponendo di poter migliorare l'una e l'altra non si fa altro, in fondo, che indicarle entrambe come l'unico «modo» sociale, eterno e già migliore.
Come si potrebbe altrimenti sostenere credibilmente che va migliorato senza ammettere tacitamente che di già è il migliore?
Come si potrebbe convincere alcuno a soffrirne per sostenerlo ed estenderlo, anche contro i propri immediati interessi di classe, se non fosse dato in anticipo come l'unico possibile?
E come può essere l'unico possibile senza ammetterne l'eternità? Ecco illustrato molto sommariamente il pozzo senza fondo delle implicanze scavato da una banalità, nel quale calato è Giuseppe in attesa di venire venduto dai fratelli alla prima carovana di mercanti di passaggio: come schiavo allora, come salariato oggi.
La libertà e l'eguaglianza politica, riconosciute secondo il diritto liberale a tutti i cittadini, e messe come presupposti del suffragio universale, non possono giungere a possedere alcun senso in altro modo che facendole poggiare su una base sociale priva di quelle disparità economiche e generalmente sociali sulle quali invece vive l'attuale società capitalistica e democratica.
A ben considerare, il sistema delle consultazioni democratiche, ponendosi come istituto di conciliazione politica, riconosce l'inconciliabilità delle classi sociali, tra le quali è strumento raffinatissimo del dominio di una classe e non del superamento stesso delle classi sociali.
Tutto questo non significa che la consultazione democratica non possa venire usata là dove si presentino determinate condizioni che la richiamano, ma non deve essere il limite oltre il quale non si può pensare ed agire (limite che d'altra parte i governanti attuali sono costretti ogni giorno a calpestare senza riguardo, pretendendo dai governati il massimo riguardo….altrimenti giù botte)
Infatti i materialisti conseguenti non ritengono che si debba essere per principio contro l'uso di una forma storico-organizzativa come contro altre forme storiche. Ma tali forme di organizzazione e di regolamentazione della società non si possono pensare a prescindere dalle condizioni nelle quali operano, e neppure considerarle come sacre e intoccabili, ovvero pericolose e da distruggere.
Quello che importa è coglierle nella loro evoluzione e domandarci se un giorno spariranno. Ecco che se giustamente diciamo che si sono potute applicare regole democratiche per la elezione dei Papi, degli Imperatori, ecc. proprio perché l'organo elettore è composto da elementi che condividono lo stesso programma, partecipi dei medesimi interessi, pervasi da identiche finalità (e come tale è appunto «organo»), applicare meccanicamente le stesse regole per una società divisa in classi è tutt'altra questione; l'organismo che in un caso è un fatto reale, nell'altro viene ridotto ad una finzione giuridica, nella quale, cioè, viene solamente dichiarato ciò che invece si dovrebbe dimostrare.
E per ultimo posso aggiungere che anche l'applicazione del meccanismo democratico di consultazione di quegli organi di classe nei quali è realizzata l'eguaglianza dei membri, (sindacati, partiti, ecc.), è da discutere; se non altro perché  così come non si può prescindere dai dati sociali, non si può prescindere dalle fasi storiche contingenti che tali organizzazioni si trovano ad attraversare, dalla loro medesima e particolare storia, dai «modi» con i quali queste contingenze sono state superate.
Ciò che va rigettato decisamente è che non si possono attribuire ai meccanismi democratici, come ad ogni schema di regolamentazione dei rapporti sociali, delle «intrinseche virtù» senza cadere nell'idealismo, nello spiritualismo o nel feticismo; senza ritornare indietro fino all'utopismo (ma in chiave farsesca); infine senza uscire irrimediabilmente dal materialismo scientifico.

E' però certo che l'uso del termine «democrazia», del tutto privo di significato concreto se riferito estensivamente per una società divisa in classi sociali, ha purtuttavia una sua ragione (legata essenzialmente ad una breve fase storica) con la quale si può spiegare la sua apparizione e persistenza.
La borghesia all'epoca della propria rivoluzione, e in quanto classe rivoluzionaria «si presenta senz'altro... non come classe ma come rappresentante dell'intera società, oppure come l'intera massa della società di contro all'unica classe dominante» - e qui Marx pone la nota: «all'illusione della comunità di interessi - inizialmente questa illusione è vera».
È questa la sola fase nella quale l'idea di democrazia - permanendo la società classista - poteva rispondere ad una istanza reale al livello dell'intera società.
Ma subito dopo, appena la borghesia si trasforma in Stato, l'idea democratica continua a permanere ma come forma svuotata e come inganno: allora come ideologia, paradigma peculiare e stereotipo nell'Enciclopedia della classe dominante, a proprio uso e a consumo delle altre classi. Infatti se è da ritenere valido il rapporto tra classe dominante e ideologia dominante, viene da sé come la borghesia e i suoi stati maggiori rischiano ben poco nella «lotta» elettorale, oltre che qualche metaforica testa, in ultima istanza del tutto inessenziale.
Badate bene che il democraticismo non è da considerare neppure come programma mancato, piuttosto come programma superato, giacché pienamente attuato: lo Stato Democratico parlamentare è finora la forma politica più favorevole al mantenimento dei rapporti sociali capitalistici. Rivendicare la parola d'ordine "democrazia" (sia pure nell'accezione originaria, ossia rivoluzionario-borghese) risulta così, in questo movimento e avvicendamento delle forme storiche organizzative, programma propriamente piccolo-borghese, appunto perché intende e pretende ritrovare, del tutto utopisticamente, un momento superato dell'avvicendamento delle classi sociali nel loro sviluppo politico.
Vorrebbe far tornare indietro la storia là dove la borghesia si presentava, realiter, come l'intera massa della società. Quella fase è definitivamente trascorsa, e il movimento della storia è irreversibile.
E se a quella fase sopravvive l'illusione democratica, questa si attua nell'ormai pedissequa farsa elettoralesca, buona appunto per rinnovare l'attesa paziente di coprirsi con la tela che Penelope non può più tessere, semmai vi si era provata; piuttosto intreccia corde di canapa per robusti lacci dall'anima notoriamente tricolore.
Non si può ammettere di dover portare a compimento il programma democratico-borghese più di quanto la borghesia stessa non ha preteso condurre a compimento quello feudale; perché in realtà in entrambi i casi non vi è e non vi era nulla da compiere che già non sia stato compiuto; piuttosto si è trattato di infliggere il colpo decisivo all'ordine feudale in nome di un ordine nuovo delle classi sociali.
Ma quando, almeno per l'occidente capitalistico, la borghesia esaurisce il proprio ciclo storico (1871) non può più esservi con il proletariato e le altre classi e classette subalterne un solo punto programmatico in comune, neppure tattico. I destini si separano e si contrappongono, come è stato dimostrato a partire dalla Comune di Parigi. Per la borghesia inizia il suo periodo di conservazione e la forma imperiale, mentre per il proletariato si apre il proprio ciclo di lotte pienamente rivoluzionarie.
E se tale ciclo è costellato da sconfitte, gloriose e ingloriose che siano, questo non è altro che la prova vivente dei cammino ineluttabile e del programma invariante del proletariato. Giacché in tutto questo ciò che importa evidenziare è proprio l'invariabilità del programma di cui il proletariato si è fornito in quanto classe in sé per sé; e non va cercata in alcun modo la verifica di tale programma nel risultato immediato, perché ci si trova ad agire contro forze ben radicate e in possesso di mezzi di pressione oggettivamente possenti.
Si può essere comunisti solo a prescindere dalle contingenze che allontanano l'attuazione della nuova organizzazione sociale; contrariamente si sarebbe indotti a modificare la teoria e la prassi sottomettendole a situazioni contingenti, nelle quali è ovviamente determinante la politica dello Stato del Capitale; il che equivarrebbe a intrecciare non solo teoricamente ma praticamente e immediatamente la politica e i destini della borghesia a quella del proletariato (cosa questa d'altronde già attuata dallo Stato Capitalistico Democratico, senza concorso alcuno di Partiti e Sindacati sedicenti operai se non per quanto riguarda l'Organizzazione del consenso pacifista e speranzoso: procesco, direi!).
In ultimo, l'appello a difendere la «forma» democratica dello Stato del capitale equivarrebbe ancora una volta ad una difesa senza fine tanto dello Stato che del Capitale, giacché l'esistenza delle classi sociali (antagoniste per definizione e necessità) pone sempre la forma Stato in perpetuo pericolo.

Nell'impossibilità, o incapacità, di concludere, finisco con alcune note ulteriori.

•  L'esistenza stessa dei partiti e del parlamentarismo presuppone il riconoscimento, da parte dello Stato, di una disparità di interessi in seno a quella che allora non potrebbe definire sé stessa come una società.

•  Sulla proprietà privata la "sovranità popolare" non può pronunciarsi. Viene posta come un diritto naturale. -Limitazione del potere decisionale nell'ambito dell'ordinamento borghese che è limitazione di sovranità.La proprietà privata è stata sempre posta al di sopra e fuori del principio democratico di sovranità. La democrazia borghese proclamando la proprietà privata come suo fondamento naturale ed eterno rivela con ciò stesso il suo nocciolo vitale, dove risiede la propria anima, nel quale non può essere colpita pena la morte.

•  Ma la proprietà privata non è solamente il limite della sovranità popolare; nel medesimo tempo rappresenta il limite invalicabile dello Stato stesso, che allora è Stato della proprietà privata, limite delle sovranità: è la sovranità senza limiti, illimitatamente sovrana.

•  Uno stato che sia sovrano nella proprietà privata non può alcunché contro la proprietà privata e la sua forma sviluppata di Capitale; la sua sovranità è negata dal proprio fondamento. Con questo aver posto fuori questione - perché a proprio fondamento - il Capitale, lo Stato riconosce il proprio limite  e necessariamente lascia affidata la questione ad un agire sociale e storico che, ovviamente, non può mantenersi interno allo Stato - altrimenti non incontrerebbe mai la questione che pur dovrebbe risolvere.
Così l'azione 'rivoluzionaria' o 'antiformista' (posta fuori), è indirettamente riconosciuta, anzi subita, dallo Stato come l'unica idonea a trattare e risolvere i limiti e le contraddizioni sostanziali delle attuali forme più sviluppate di organizzazione sociale.Il compimento delle sovranità sociali è dunque nel dissolvimento della proprietà privata e del suo Stato.

•  La separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario conferma che ci si trova difronte ad una situazione sociale nella quale le funzioni sociali stesse non possono svolgersi in una sociale compiutezza ma, appunto, in una sociale separatezza che le salvaguarda da quella medesima società della quale dovrebbero essere fondamento e garanti.

•  Supporre una virtù intrinseca negli strumenti democratici, così come ad ogni altra forma di consultazione, è altrettanto idealistico e fallace che supporre una virtù intrinseca alla lotta armata rivoluzionaria in ogni caso e sotto ogni condizione. In questo si vede benissimo come l'estremismo ansioso è, per procedura teorica, più vicino al conservatorismo moderato che alla diritta visione del comunismo scientifico.

Costretto ad interrompere bruscamente questa comunicazione per il dolore ai denti, che si sta facendo sempre più ricorrente e lancinante, in tutta fretta vi mando i miei più cordiali saluti e auguri di buon lavoro.
Vostro

Itaca, agosto 1975


Inviata agli Uffici per l'Immaginazione Preventiva, quindi stampata nel 1975 su carta gialla per il libro di T. Catalano "De Ironia". Il volume progettato da Tullio non venne più pubblicato; rimangono delle bozze di stampa.

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-Lettera da Itaca (1975)
Fornitura autonoma per il Giorno della Memoria (di classe)
in preparazione delle consultazioni politiche 2013